Psicologia clinica

Psicologia clinica: comprendere, affrontare, cambiare

La psicologia clinica è il cuore del mio lavoro: uno spazio in cui accogliere la sofferenza psicologica, comprenderla a fondo e accompagnare le persone verso un cambiamento reale e duraturo. Attraverso percorsi di psicoterapia individuale e familiare, aiuto chi si rivolge a me ad affrontare ansia, depressione, traumi, difficoltà relazionali, disturbi alimentari e molti altri disagi emotivi.

Ogni persona è diversa, ogni percorso è unico. Per questo motivo la relazione terapeutica è un’esperienza costruita su misura, fondata su fiducia, ascolto attivo e rispetto dei tempi e delle emozioni. L’obiettivo non è semplicemente “eliminare i sintomi”, ma ritrovare benessere, risorse interiori e nuove prospettive.

Nel tempo ho integrato approcci diversi – dalla psicoterapia cognitivo-comportamentale alla Schema Therapy e all’EMDR – per offrire interventi efficaci e personalizzati, capaci di adattarsi alle molteplici sfumature del disagio psicologico.

Persona con felpa color teal e pantaloni grigi confortata; mani intrecciate in segno di sostegno.
Autore: Maria Luisa Gargiulo 26 giugno 2018
Le persone interessate alla psicoterapia mi pongono di solito alcuni quesiti: La psicoterapia può essere utile per affrontare il mio problema? Io sarei una persona adatta per andare in psicoterapia? Perché è utile parlare con uno psicologo? Non basterebbe un buon amico ? Alcune informazioni possono aiutare a rispondere a queste domande e a chiarire meglio le caratteristiche della psicoterapia, di quali giovamenti può portare e anche di quello che la psicoterapia non può fare. Gli aspetti che tratterò sono: Quali possibilità e quali limiti presenta la psicoterapia. Quali condizioni sono necessarie affinché una psicoterapia sia utile  Questi sono aspetti che riguardano la competenza e le caratteristiche umane del terapeuta ma non solo. Difatti perché la psicoterapia funzioni ci vuole uno psicoterapeuta competente e anche un paziente orientato ad ottenere un cambiamento personale.
Dipendenza da shopping compulsivo
Autore: Maria Luisa Gargiulo 6 marzo 2018
Lo shopping compulsivo è un comportamento problematico che negli ultimi anni sta divenendo sempre più evidente. Fa parte delle cosiddette “Nuove Dipendenze”, ossia di quella gamma di disturbi che si manifestano con comportamenti problematici nuovi, .....
Le mani dell'uomo poggiano su un bastone, indossa un anello d'oro, una camicia a quadri e pantaloni color cachi.
Autore: Maria Luisa Gargiulo 3 febbraio 2018
L’importanza di un vero sostegno psicologico per un anziano
u elaborare il lutto
Autore: Maria Luisa Gargiulo 2 febbraio 2018
La reazione alla perdita di una persona significativa, varia da persona a persona. Si tratta di una serie di emozioni, stati mentali, comportamenti e pensieri che si caratterizzano per essere genericamente piuttosto lunghi. Vi è comunque una successione di varie fasi che portano a quella che si chiama gergalmente l’elaborazione del lutto. Esistono vari stadi che caratterizzano il cordoglio : nelle prime settimane talvolta si assiste ad una reazione di iperattivazione, o la persona si sente quasi imbambolata, e si ritrova in alcuni casi ad affrontare compiti gravosi, con una certa forza, quasi come se non si rendesse conto esattamente di ciò che sta facendo. Nei loro racconti, molte persone riferiscono che non avrebbero mai immaginato di riuscire a sostenere la situazione, come hanno fatto immediatamente prima e nei giorni successivi alla morte della persona. Col passare del tempo, si percepisce più pienamente la mancanza del congiunto, e si provano emozioni di desolazione, rabbia, ansia, tristezza e struggimento. La mancanza della persona attiva di ”sistema di attaccamento” che questo comporterà reazioni diverse (ricerca spasmodica, evitamento, rassicurazione verso gli altri, oppure allarme fino al panico) secondo il modello operativo che la persona ha acquisito e che attiva quando si sente sola e abbandonata. In alcune fasi del cordoglio, si ha bisogno di ricordare episodi specifici connessi alla persona deceduta, si cerca il contatto con oggetti, luoghi, attività che ci ricordano il congiunto. Alcune persone trovano conforto nella condivisione con altri di questi ricordi e nel prendersi cura di cose, attività e interessi che appartenevano alla persona morta. La tristezza, la solitudine ed il dolore collegati alla percezione della mancanza, caratterizzano una possibile fase depressiva. Essa, entro alcuni limiti è perfettamente normale e spesso necessaria per la riorganizzazione dell’individuo, che deve fare i conti con una vita futura in cui la persona morta non ci sarà.  Il sostegno familiare, le risorse spirituali, la capacità di adattamento della persona stessa, possono concorrere a creare un nuovo equilibrio, in cui la persona perduta non è cancellata, ma la perdita viene elaborata all’interno di un nuovo sistema di equilibrio del sopravvissuto. In alcuni casi, invece, la persona che ha subito un lutto, resta tantissimi anni in una delle fasi precedenti. Si assiste quindi ad un blocco di questo lento processo di reazione.
Donna con le mani sulla testa, che guarda in basso, con un maglione in tonalità neutre seduta su un divano verde.
Autore: Maria Luisa Gargiulo 6 marzo 2017
Da alcuni anni, la psicopatologia e la ricerca clinica, nel considerare il disagio psicologico, hanno rivalutato le esperienze reali vissute dalle persone,rispetto alle fantasie inconsce, che prima erano considerate spesso alla base dei disturbi.  A cavallo del 1900 e nei primi decenni del secolo scorso, sarebbe stato socialmente e moralmente poco accettabile, ammettere che le persone durante la loro vita, potessero andare incontro ad esperienze molto spiacevoli, soprattutto se provocate da familiari o comunque da persone appartenenti alla vita quotidiana. qualcuno ritiene che sia per questo motivo che la vecchia psicanalisi interpretava come fantasie create dall’impulso sessuale ed all’impulso di morte, i racconti che le prime persone in trattamento psicanalitico andavano narrando, e sottovalutava taluni indizi che oggi sono presi molto più sul serio. Da molti decenni si sa infatti che la massima parte delle paure, dei pensieri dissociati, delle emozioni somatizzate, insomma del malessere psichico e fisico, hanno la loro origine in esperienze interpersonali realmente accadute. la cronaca nera e la cronaca cosiddetta grigia, ossia quella che racconta la vita di tutti i giorni, confermano sempre di più, che le persone sono in grado di fare realmente del male ai propri simili. Essere genitori, fratelli, figli, nonni, coniugi, amanti appassionati, non impedisce affatto di fare del male né di riceverne. Nel senso comune, c’è come un assunto di base, secondo il quale avere una relazione affettiva con qualcuno ci impedirebbe di nuocergli. è come se la regola dicesse che il male si fa agli sconosciuti, ai nemici senza volto, si fa agli estranei, a quelli per i quali non si nutre alcunaffetto. invece, basta ascoltare la prima o al massimo la seconda notizia dei telegiornali in prima serata oppure assistere ad una trasmissione di approfondimento, per apprendere attraverso dettagliatissime cronache, quanto frequentemente sia fattibile il male, sia quello fisico che quello psicologico,tra persone fra di loro molto vicine. L’attenzione mediatica, forse per qualche pruriginoso meccanismo, o solo forse perché segue l’incredulità delle nostre coscienze rispetto alla natura umana di chi fa del male, si concentra massimamente sul carnefice: La personalità dell’assassino, il movente della madre che uccise suo figlio, le oscure pieghe della mente del padre che tenne prigioniera e violentò sua figlia, le modalità operative del fidanzatino che si accanì sulla sua partner eccetera eccetera fiumi di parole, inchiostro, interviste, valutazioni criminologiche, commenti legali, richieste di grazia, reazioni sdegnate…., tutti i riflettori si concentrano per lo più su una delle due parti, ossia su colui che infligge del male, su come lo fa e magari anche su perché lo fa. Meno spazio viene dato alla vittima, così poco stimolante dal punto di vista del dibattito cronistico e della narrazione scenica. nel circo mediatico del susseguirsi delle notizie il colpevole è una persona speciale, magari disturbata ma comunque interessante, mentre la vittima è quasi sempre una persona come un’altra, talmente poco interessante da nonmeritare alcuna attenzione, al di fuori di sentimenti di pietà e compassione. Eppure, se riconosciamo che ci sono persone che fanno del male,dobbiamo convenire che eividentemente ci sono altrettante e forse ancor di più persone che lo subiscono. Il processo con il quale, la persona sia in grado di sopravvivere all’esperienza subita è, ancora per molti versi, uno dei più meravigliosi misteri della natura umana. Le persone che sopravvivono a traumi, lo fanno dovendo sacrificare spesso molto del proprio equilibrio e funzionamento. in che modo lo facciano è sempre molto difficile prevederlo, tante sono le possibili variabili che includono fra i possibili esiti la sopravvivenza. tutte le volte che ascolto qualcuno raccontarmi le proprie esperienze traumatiche, e tutte le volte che questa persona riesce a dirmi anche solo un centesimo di tutto il dolore che ha dovuto sopportare, non posso fare a meno di ammirarla per essere riuscita ad arrivare fino a lì. Come per uno di quei miracoli della botanica, per cui una pianta vive e magari riesce anche a fiorire, non si sa come, nel deserto più arido èarso, così tutte le volte non posso fare a meno di notare che evidentemente abbiamo molte più risorse di quelle che oggi ammettiamo di avere. Per evento traumatico non dobbiamo intendere necessariamente qualcosa che sia riconducibile ad un fatto di sangue o ad un delitto. Anche il concetto di trauma si è evoluto negli ultimi periodi. Molti anni fa nella letteratura classica, si indicavano come esempi di trauma l’essere stati esposti a catastrofi naturali, guerra, torture, genocidio, bombardamenti. Insomma a tutto il male possibile che evidentemente si immaginava poter essere compiuto da un proprio simile od alla natura. Un male inflitto e subito a caso, da sconosciuti a sconosciuti. La nuova idea comune di trauma, invece, include anche una esperienza assolutamente prossimale, subita nella relazione con una persona conosciuta, molto spesso appartenente al proprio quotidiano. Ai fasti della cronaca assurgono esclusivamente i traumi che sono legati al compimento di nefandezze efferate, e dunque comportamenti che giungono a parossistiche manifestazioni plateali. In realtà molti di questi gesti sono soltanto l’ultimo atto di un copione con una lunga storia, fatta di tanti impalpabili micro comportamenti traumatici, che, presi singolarmente, non sarebbero sembrati allarmanti a nessuno, visti dall’esterno. Vi sono poi tutti i traumi e le violenze che non conducono ad atti criminali veri e propri, oppure che discendono da crimini sottili difficilmente riscontrabili dal punto di vista probatorio. Esistono comportamenti dannosi per le persone, ma che non sono ritenuti tali secondo alcune sottoculture, o che sono conosciuti esclusivamente da chi li infligge e da chi li subisce, e non è detto che la vittima sia sufficientemente matura e consapevole, da ritenere che il comportamento cui viene sottoposta sia ingiusto. anzi, siccome a traumi psicologici e ripetuti, molto spesso è associato una specie di indottrinamento morale silenziosamente perpetrato, è assai probabile che la vittima di un certo comportamento, consideri perfettamente naturale, anzi positivo e segno di affetto quello che subisce, e che riconduca la propria sofferenza a chissà quale misteriosa malattia o addirittura ad un suo colpevole modo di essere. Qualcuno, nel subire un maltrattamento, pensa ad esempio di essere colpevole di trovarsi al posto sbagliato o nel momento sbagliato, oppure di fare qualcosa di particolare per indurre l’altro a farle del male, oppure di essere sbagliato perché non riesce a fermare l’altro nelle proprie azioni. Difficilmente quindi la persona che subisce un trauma derivante da un comportamento di un’altra persona a se molto vicina, si considera veramente una vittima. Molto spesso invece si considera quanto meno corresponsabile di quello che subisce. Altre volte scambia dei comportamenti che derivano da patologie delle quali l’altro è affetto, con manifestazioni di amore e comunque di attenzione. La confusione che la vittima è indotta a fare è parte del risultato della relazione patologica, perché uno dei gli effetti secondari può anche essere quello di avere una alterazione della valutazione della propria responsabilità rispetto al dolore o al disagio subito. Qualche volta ho incontrato persone per le quali ipotizzare ad esempio di avere incontrato sulla propria strada un partner con un disturbo sessuale, affetto quindi da una delle tante parafilie possibili, era l’ultima cosa che avrebbero potuto ipotizzare. Allo stesso modo, è facile trovare persone che hanno subito molte percosse, oppure minacce e comportamenti verbalmente aggressivi, dei quali non riuscivano a comprendere la ragione, cercando con tutte se stesse, di trovare quel meccanismo, quello sbaglio, quell’impercettibile loro azione, che secondo loro faceva scattare il comportamento violento. A queste persone difficilmente veniva in mente l’ipotesi di trovarsi davanti a qualcuno con un disturbo del controllo dei gli impulsi, un disturbo antisociale o borderline di personalità eccetera.. Un altro tipo di trauma, che oggi si sa essere sottostimato, ma che sappiamo avere un grande ruolo nell’essere un fattore di rischio per la sofferenza psicologica, non ha ancora un nome preciso, ma corrisponde ad aver subito una specie di indifferenza da parte di una persona affettivamente significativa, quando quest’ultima, venuta a conoscenza di un problema, di un pericolo, si è comportata come se ciò nonsia mai accaduto. La negazione, il non vedere e quindi, conseguentemente, non soccorrere, non preoccuparsi, non agire e far finta di nulla, avvolte può avere un effetto danoso sulla vittima, più grande di quello che può derivare dal fatto in se stesso. Ad esempio, constatare di non poter contare sulla comprensione e sull’aiuto di una persona cara, nell’affrontare un piccolo o grande evento negativo della vita, può essere molto più devastante dell’evento negativo stesso. Ciò perché quello che viene a mancare e la fiducia in una relazione significativa, e quindi la conseguenza è un senso di inaiutabilità, disperazione, solitudine, paura senza sbocco e senza rimedio. Provare questi sentimenti, e magari provarli per un tempo prolungato, può essere certamente un trauma, in senso lato, molto più dannoso dell’evento stesso dal quale la persona si aspettava di poter essere difesa e protetta. Da qualche anno quindi l’indifferenza davanti al pericolo, è considerato un maltrattamento vero e proprio, quando essa concerne due persone che si trovano in una relazione significativa. Nella nostra società opulenta, nella quale abbiamo abbondanza di cose, oggetti, alimenti, quasi mai siamo al freddo e quasi mai non veniamo curati con farmaci quando siamo ammalati, il maltrattamento non equivale più come una volta, ad avere meno accesso ai beni materiali disponibili. Anzi, in molte occasioni le persone che non sono in grado di accudire affettivamente, tentano di colmare questa carenza, attribuendo uguale valore a riempire il prossimo di cose e di cibo. In effetti, però, sempre più ci troviamo davanti a persone che raccontano storie nelle quali la carenza di beni materiali lascia il posto alla carenza di reciprocità relazionale, di accudimento affettivo, di responsabilità parentale . Nelle storie che io e i miei colleghi, siamo portati a conoscere attraverso la psicoterapia ed il nostro lavoro clinico, emergono sempre più i segni di traumi di un nuovo genere, per i quali ancora non abbiamo trovato neppure i nomi giusti, giacché forse essi rappresentano il prodotto di una nuova patologia della quotidianità. Il motivo della sofferenza si sta trasformando, e si stanno modificando anche i modi ed i sintomi per manifestarla. Lo psicoterapeuta a una visione privilegiata di questo tipo di trasformazione, ma è molto importante iniziare a trasferire queste informazioni alle persone in genere. È importante perché si può individuare più facilmente un disagio, e chiedere aiuto prima possibile.

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